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lariosto testo integrale, brano completo, citazione delle fonti, commedie opere storiche opere letterarie, in prosa e in versi, operaomnia #
CANTO QUINTO
[ Riassunto ]
1
Tutti gli altri animai che sono in terra, o che vivon quieti e stanno in pace, o se vengono a rissa e si fan guerra, alla femina il maschio non la face: l'orsa con l'orso al bosco sicura erra, la leonessa appresso il leon giace; col lupo vive la lupa sicura, né la iuvenca ha del torel paura.
2
Ch'abominevol peste, che Megera è venuta a turbar gli umani petti? che si sente il marito e la mogliera sempre garrir d'ingiuriosi detti, stracciar la faccia e far livida e nera, bagnar di pianto i geniali letti; e non di pianto sol, ma alcuna volta di sangue gli ha bagnati l'ira stolta.
3
Parmi non sol gran mal, ma che l'uom faccia contra natura e sia di Dio ribello, che s'induce a percuotere la faccia di bella donna, o romperle un capello: ma chi le dà veneno, o chi le caccia l'alma del corpo con laccio o coltello, ch'uomo sia quel non crederò in eterno, ma in vista umana un spirto de l'inferno.
4
Cotali esser doveano i duoi ladroni che Rinaldo cacciò da la donzella, da lor condotta in quei scuri valloni perché non se n'udisse più novella. Io lasciai ch'ella render le cagioni s'apparechiava di sua sorte fella al paladin, che le fu buono amico: or, seguendo l'istoria, così dico.
5
La donna incominciò: - Tu intenderai la maggior crudeltade e la più espressa, ch'in Tebe o in Argo o ch'in Micene mai, o in loco più crudel fosse commessa. E se rotando il sole i chiari rai, qui men ch'all'altre region s'appressa, credo ch'a noi malvolentieri arrivi, perché veder sì crudel gente schivi.
6
Ch'agli nemici gli uomini sien crudi, in ogni età se n'è veduto esempio; ma dar la morte a chi procuri e studi il tuo ben sempre, è troppo ingiusto et empio. E acciò che meglio il vero io ti denudi, perché costor volessero far scempio degli anni verdi miei contra ragione, ti dirò da principio ogni cagione.
7
Voglio che sappi, signor mio, ch'essendo tenera ancora, alli servigi venni de la figlia del re, con cui crescendo, buon luogo in corte et onorato tenni. Crudele Amore, al mio stato invidendo, fe' che seguace, ahi lassa! gli divenni: fe' d'ogni cavallier, d'ogni donzello parermi il duca d'Albania più bello.
8
Perché egli mostrò amarmi più che molto, io ad amar lui con tutto il cor mi mossi. Ben s'ode il ragionar, si vede il volto, ma dentro il petto mal giudicar possi. Credendo, amando, non cessai che tolto l'ebbi nel letto, e non guardai ch'io fossi di tutte le real camere in quella che più secreta avea Ginevra bella;
9
dove tenea le sue cose più care, e dove le più volte ella dormia. Si può di quella in s'un verrone entrare, che fuor del muro al discoperto uscía. Io facea il mio amator quivi montare; e la scala di corde onde salia io stessa dal verron giù gli mandai qual volta meco aver lo desiai:
10
che tante volte ve lo fei venire, quanto Ginevra me ne diede l'agio, che solea mutar letto, or per fuggire il tempo ardente, or il brumal malvagio. Non fu veduto d'alcun mai salire; però che quella parte del palagio risponde verso alcune case rotte, dove nessun mai passa o giorno o notte.
11
Continuò per molti giorni e mesi tra noi secreto l'amoroso gioco: sempre crebbe l'amore; e sì m'accesi, che tutta dentro io mi sentia di foco: e cieca ne fui sì, ch'io non compresi ch'egli fingeva molto, e amava poco; ancor che li suo' inganni discoperti esser doveanmi a mille segni certi.
12
Dopo alcun dì si mostrò nuovo amante de la bella Ginevra. Io non so appunto s'allora cominciasse, o pur inante de l'amor mio, n'avesse il cor già punto. Vedi s'in me venuto era arrogante, s'imperio nel mio cor s'aveva assunto; che mi scoperse, e non ebbe rossore chiedermi aiuto in questo nuovo amore.
13
Ben mi dicea ch'uguale al mio non era, né vero amor quel ch'egli avea a costei; ma simulando esserne acceso, spera celebrarne i legitimi imenei. Dal re ottenerla fia cosa leggiera, qualor vi sia la volontà di lei; che di sangue e di stato in tutto il regno non era, dopo il re, di lu' il più degno.
14
Mi persuade, se per opra mia potesse al suo signor genero farsi (che veder posso che se n'alzeria a quanto presso al re possa uomo alzarsi), che me n'avria bon merto, e non saria mai tanto beneficio per scordarsi; e ch'alla moglie e ch'ad ogni altro inante mi porrebbe egli in sempre essermi amante.
15
Io, ch'era tutta a satisfargli intenta, né seppi o vòlsi contradirgli mai, e sol quei giorni io mi vidi contenta, ch'averlo compiaciuto mi trovai; piglio l'occasion che s'appresenta di parlar d'esso e di lodarlo assai; et ogni industria adopro, ogni fatica, per far del mio amator Ginevra amica.
16
Feci col core e con l'effetto tutto quel che far si poteva, e sallo Idio; né con Ginevra mai potei far frutto, ch'io le ponessi in grazia il duca mio: e questo, che ad amar ella avea indutto tutto il pensiero e tutto il suo disio un gentil cavallier, bello e cortese, venuto in Scozia di lontan paese;
17
che con un suo fratel ben giovinetto venne d'Italia a stare in questa corte; si fe' ne l'arme poi tanto perfetto, che la Bretagna non avea il più forte. Il re l'amava, e ne mostrò l'effetto; che gli donò di non picciola sorte castella e ville e iuridizioni, e lo fe' grande al par dei gran baroni.
18
Grato era al re, più grato era alla figlia quel cavallier chiamato Ariodante, per esser valoroso a maraviglia; ma più, ch'ella sapea che l'era amante. Né Vesuvio, né il monte di Siciglia, né Troia avampò mai di fiamme tante, quanto ella conoscea che per suo amore Ariodante ardea per tutto il core.
19
L'amar che dunque ella facea colui con cor sincero e con perfetta fede, fe' che pel duca male udita fui; né mai risposta da sperar mi diede: anzi quanto io pregava più per lui e gli studiava d'impetrar mercede, ella, biasmandol sempre e dispregiando, se gli venía più sempre inimicando.
20
Io confortai l'amator mio sovente, che volesse lasciar la vana impresa; né si sperasse mai volger la mente di costei, troppo ad altro amore intesa: e gli feci conoscer chiaramente, come era sì d'Ariodante accesa, che quanta acqua è nel mar, piccola dramma non spegneria de la sua immensa fiamma.
21
Questo da me più volte Polinesso (che così nome ha il duca) avendo udito, e ben compreso e visto per se stesso che molto male era il suo amor gradito; non pur di tanto amor si fu rimesso, ma di vedersi un altro preferito, come superbo, così mal sofferse, che tutto in ira e in odio si converse.
22
E tra Ginevra e l'amator suo pensa tanta discordia e tanta lite porre, e farvi inimicizia così intensa, che mai più non si possino comporre; e por Ginevra in ignominia immensa, donde non s'abbia o viva o morta a tôrre: né de l'iniquo suo disegno meco vòlse, o con altri, ragionar che seco.
23
Fatto il pensier: « Dalinda mia, » mi dice (che così son nomata) « saper déi, che come suol tornar da la radice arbor che tronchi e quattro volte e sei; così la pertinacia mia infelice, ben che sia tronca dai successi rei, di germogliar non resta; che venire pur vorria a fin di questo suo desire.
24
E non lo bramo tanto per diletto, quanto perché vorrei vincer la pruova; e non possendo farlo con effetto, s'io lo fo imaginando, anco mi giuova. Voglio, qual volta tu mi dài ricetto, quando allora Ginevra si ritruova nuda nel letto, che pigli ogni vesta ch'ella posta abbia, e tutta te ne vesta.
25
Come ella s'orna e come il crin dispone studia imitarla, e cerca il più che sai di parer dessa, e poi sopra il verrone a mandar già la scala ne verrai. Io verrò a te con imaginazione che quella sii, di cui tu i panni avrai: e così spero, me stesso ingannando, venir in breve il mio desir sciemando. »
26
Così disse egli. Io che divisa e sevra e lungi era da me, non posi mente che questo in che pregando egli persevra, era una fraude pur troppo evidente; e dal verron, coi panni di Ginevra, mandai la scala onde salí sovente; e non m'accorsi prima de l'inganno, che n'era già tutto accaduto il danno.
27
Fatto in quel tempo con Ariodante il duca avea queste parole o tali (che grandi amici erano stati inante che per Ginevra si fesson rivali): « Mi maraviglio » incominciò il mio amante « ch'avendoti io fra tutti li mie' uguali sempre avuto il rispetto e sempre amato, ch'io sia da te sì mal rimunerato.
28
Io son ben certo che comprendi e sai di Ginevra e di me l'antiquo amore; e per sposa legitima oggimai per impetrarla son dal mio signore. Perché mi turbi tu? perché pur vai senza frutto in costei ponendo il core? Io ben a te rispetto avrei, per Dio, s'io nel tuo grado fossi, e tu nel mio. »
29
« Et io » rispose Ariodante a lui « di te mi maraviglio maggiormente; che di lei prima inamorato fui, che tu l'avessi vista solamente: e so che sai quanto è l'amor tra nui, ch'esser non può, di quel che sia, più ardente; e sol d'essermi moglie intende e brama: e so che certo sai ch'ella non t'ama.
30
Perché non hai tu dunque a me il rispetto per l'amicizia nostra, che domande ch'a te aver debba, e ch'io t'avre' in effetto, se tu fossi con lei di me più grande? Né men di te per moglie averla aspetto, se ben tu sei più ricco in queste bande: io non son meno al re, che tu sia, grato, ma più di te da la sua figlia amato. »
31
« Oh », disse il duca a lui « grande è cotesto errore a che t'ha il folle amor condutto! Tu credi esser più amato; io credo questo medesmo: ma si può vedere al frutto. Tu fammi ciò c'hai seco, manifesto, et io il secreto mio t'aprirò tutto; e quel di noi che manco aver si veggia, ceda a chi vince, e d'altro si proveggia.
32
E sarò pronto, se tu vuoi ch'io giuri di non dir cosa mai che mi riveli: così voglio ch'ancor tu m'assicuri che quel ch'io ti dirò, sempre mi celi. »
Venner dunque d'accordo alli scongiuri, e posero le man sugli Evangeli: e poi che di tacer fede si diero, Ariodante incominciò primiero.
33
E disse per lo giusto e per lo dritto come tra sé e Ginevra era la cosa; ch'ella gli avea giurato e a bocca e in scritto, che mai non saria ad altri, ch'a-llui, sposa; e se dal re le venía contraditto, gli promettea di sempre esser ritrosa da tutti gli altri maritaggi poi, e viver sola in tutti i giorni suoi:
34
e ch'esso era in speranza, pel valore ch'avea mostrato in arme a più d'un segno, et era per mostrare a laude, a onore, a beneficio del re e del suo regno, di crescer tanto in grazia al suo signore, che sarebbe da lui stimato degno che la figliuola sua per moglie avesse, poi che piacer a lei così intendesse.
35
Poi disse: « A questo termine son io, né credo già ch'alcun mi venga appresso: né cerco più di questo, né desio de l'amor d'essa aver segno più espresso; né più vorrei, se non quanto da Dio per connubio legitimo è concesso: e saria invano il domandar più inanzi; che di bontà so come ogn'altra avanzi. »
36
Poi ch'ebbe il vero Ariodante esposto de la mercé ch'aspetta a sua fatica, Polinesso, che già s'avea proposto di far Ginevra al suo amator nemica, cominciò: « Sei da me molto discosto, e vo' che di tua bocca anco tu 'l dica; e del mio ben veduta la radice, che confessi me solo esser felice.
37
Finge ella teco, né t'ama né prezza; che ti pasce di speme e di parole: oltra questo, il tuo amor sempre a sciochezza, quando meco ragiona, imputar suole. Io ben d'esserle caro altra certezza veduta n'ho, che di promesse e fole; e tel dirò sotto la fé in secreto, ben che farei più il debito a star cheto.
38
Non passa mese, che tre, quattro e sei e talor diece notti, io non mi truovi nudo abbracciato in quel piacer con lei, ch'all'amoroso ardor par che sì giovi: sì che tu puoi veder s'a' piacer miei son d'aguagliar le ciance che tu pruovi. Cedimi dunque, e d'altro ti provedi, poi che sì inferior di me ti vedi. »
39
« Non ti vo' creder questo, » gli rispose Ariodante « e certo so che menti; e composto fra te t'hai queste cose acciò che da l'impresa io mi spaventi: ma perché a lei son troppo ingiuriose, questo c'hai detto sostener convienti; che non bugiardo sol, ma voglio ancora che tu sei traditor mostrarti or ora. »
40
Soggiunse il duca: « Non sarebbe onesto che noi volessen la battaglia tôrre di quel che t'offerisco manifesto, quando ti piaccia, inanzi agli occhi porre. »
Resta smarrito Ariodante a questo, e per l'ossa un tremor freddo gli scorre; e se creduto ben gli avesse a pieno, venía sua vita allora allora meno.
41
Con cor trafitto e con pallida faccia, e con voce tremante e bocca amara rispose: « Quando sia che tu mi faccia veder quest'aventura tua sì rara, prometto di costei lasciar la traccia, a te sì liberale, a me sì avara: ma ch'io tel voglia creder, non far stima, s'io non lo veggio con questi occhi prima. »
42
« Quando ne sarà il tempo, avisarotti », suggiunse Polinesso, e dipartisse. Non credo che passàr più di due notti, ch'ordine fu che 'l duca a me venisse. Per scoccar dunque i lacci che condotti avea sì cheti, andò al rivale, e disse che s'ascondesse la notte seguente tra quelle case ove non sta mai gente:
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e dimostrògli un luogo a dirimpetto di quel verrone ove solea salire. Ariodante avea preso sospetto che lo cercasse far quivi venire, come in un luogo dove avesse eletto di por gli aguati, e farvelo morire, sotto questa finzion, che vuol mostrargli quel di Ginevra, ch'impossibil pargli.
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Di volervi venir prese partito, ma in guisa che di lui non sia men forte; perché accadendo che fosse assalito, si truovi sì, che non tema di morte. Un suo fratello avea saggio et ardito, il più famoso in arme de la corte, detto Lurcanio; e avea più cor con esso, che se dieci altri avesse avuto appresso.
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Seco chiamollo, e vòlse che prendesse l'arme; e la notte lo menò con lui: non che 'l secreto suo già gli dicesse; né l'avria detto ad esso, né ad altrui. Da sé lontano un trar di pietra il messe: « Se mi senti chiamar, vien » disse « a nui; ma se non senti, prima ch'io ti chiami, non ti partir di qui, frate, se m'ami. »
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« Va pur, non dubitar », disse il fratello: e così venne Ariodante cheto, e si celò nel solitario ostello ch'era d'incontro al mio verron secreto. Vien d'altra parte il fraudolente e fello, che d'infamar Ginevra era sì lieto; e fa il segno, tra noi solito inante, a me che de l'inganno era ignorante.
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Et io con veste candida, e fregiata per mezzo a liste d'oro e d'ogn'intorno, e con rete pur d'or, tutta adombrata di bei fiocchi vermigli al capo intorno (foggia che sol fu da Ginevra usata, non d'alcun'altra), udito il segno, torno sopra il verron, ch'in modo era locato, che mi scopria dinanzi e d'ogni lato.
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Lurcanio in questo mezzo dubitando che 'l fratello a pericolo non vada, o come è pur commun disio, cercando di spiar sempre ciò che ad altri accada; l'era pian pian venuto seguitando, tenendo l'ombre e la più oscura strada: e a men di dieci passi a lui discosto, nel medesimo ostel s'era riposto.
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Non sappiendo io di questo cosa alcuna, venni al verron ne l'abito c'ho detto, sì come già venuta era più d'una e più di due fiate a buono effetto. Le veste si vedean chiare alla luna; né dissimile essendo anch'io d'aspetto né di persona da Ginevra molto, fece parere un per un altro il volto:
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e tanto più, ch'era gran spazio in mezzo fra dove io venni e quelle inculte case, ai dui fratelli, che stavano al rezzo, il duca agevolmente persuase quel ch'era falso. Or pensa in che ribrezzo Ariodante, in che dolor rimase. Vien Polinesso, e alla scala s'appoggia che giù manda'gli, e monta in su la loggia.
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A prima giunta io gli getto le braccia al collo, ch'io non penso esser veduta; lo bacio in bocca e per tutta la faccia, come far soglio ad ogni sua venuta. Egli più de l'usato si procaccia d'accarezzarmi, e la sua fraude aiuta. Quell'altro al rio spettacolo condutto, misero sta lontano, e vede il tutto.
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Cade in tanto dolor, che si dispone allora allora di voler morire: e il pome de la spada in terra pone; che su la punta si volea ferire. Lurcanio che con grande ammirazione avea veduto il duca a me salire, ma non già conosciuto chi si fosse, scorgendo l'atto del fratel, si mosse;
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e gli vietò che con la propria mano non si passasse in quel furore il petto. S'era più tardo o poco più lontano, non giugnea a tempo, e non faceva effetto. « Ah misero fratel, fratello insano, »
gridò « perc'hai perduto l'intelletto, ch'una femina a morte trar ti debbia? Ch'ir possan tutte come al vento nebbia!
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Cerca far morir lei, che morir merta, e serva a più tuo onor tu la tua morte. Fu d'amar lei, quando non t'era aperta la fraude sua: or è da odiar ben forte, poi che con gli occhi tuoi tu vedi certa, quanto sia meretrice, e di che sorte. Serba quest'arme che volti in te stesso, a far dinanzi al re tal fallo espresso. »
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Quando si vede Ariodante giunto sopra il fratel, la dura impresa lascia; ma la sua intenzion da quel ch'assunto avea già di morir, poco s'accascia. Quindi si leva, e porta non che punto, ma trapassato il cor d'estrema ambascia; pur finge col fratel, che quel furore non abbia più, che dianzi avea nel core.
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Il seguente matin, senza far motto al suo fratello o ad altri, in via si messe da la mortal disperazion condotto; né di lui per più dì fu chi sapesse. Fuor che 'l duca e il fratello, ogn'altro indòtto era chi mosso al dipartir l'avesse. Ne la casa del re di lui diversi ragionamenti e in tutta Scozia fêrsi.
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In capo d'otto o di più giorni in corte venne inanzi a Ginevra un viandante, e novelle arrecò di mala sorte: che s'era in mar summerso Ariodante di volontaria sua libera morte, non per colpa di borea o di levante. D'un sasso che sul mar sporgea molt'alto avea col capo in giù preso un gran salto.
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Colui dicea: « Pria che venisse a questo, a me che a caso riscontrò per via, disse: "Vien meco, acciò che manifesto per te a Ginevra il mio successo sia; e dille poi, che la cagion del resto che tu vedrai di me, ch'or ora fia, è stato sol perc'ho troppo veduto: felice, se senza occhi io fussi suto!"
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Eramo a caso sopra Capobasso, che verso Irlanda alquanto sporge in mare. Così dicendo, di cima d'un sasso lo vidi a capo in giù sott'acqua andare. Io lo lasciai nel mare, et a gran passo ti son venuto la nuova a portare. »
Ginevra, sbigottita e in viso smorta, rimase a quello annunzio mezza morta.
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Oh Dio, che disse e fece, poi che sola si ritrovò nel suo fidato letto! Percosse il seno, e si stracciò la stola, e fece all'aureo crin danno e dispetto, ripetendo sovente la parola ch'Ariodante avea in estremo detto: che la cagion del suo caso empio e tristo tutta venía per aver troppo visto.
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Il rumor scorse di costui per tutto, che per dolor s'avea dato la morte. Di questo il re non tenne il viso asciutto, né cavallier né donna de la corte. Di tutti il suo fratel mostrò più lutto; e si sommerse nel dolor sì forte, ch'ad essempio di lui, contra se stesso voltò quasi la man per irgli appresso.
62
E molte volte ripetendo seco, che fu Ginevra che 'l fratel gli estinse, e che non fu se non quell'atto bieco che di lei vide, ch'a morir lo spinse; di voler vendicarsene sì cieco venne, e sì l'ira e sì il dolor lo vinse, che di perder la grazia vilipese, et aver l'odio del re e del paese.
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E inanzi al re, quando era più di gente la sala piena, se ne venne, e disse: « Sappi, signor, che di levar la mente al mio fratel, sì ch'a morir ne gisse, stata è la figlia tua sola nocente; ch'a lui tanto dolor l'alma trafisse d'aver veduta lei poco pudica, che più che vita ebbe la morte amica.
64
Erane amante, e perché le sue voglie disoneste non fur, nol vo' coprire: per virtù meritarla aver per moglie da te sperava e per fedel servire; ma mentre il lasso ad odorar le foglie stava lontano, altrui vide salire, salir su l'arbor riserbato, e tutto essergli tolto il disiato frutto. »
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E seguitò, come egli avea veduto venir Ginevra sul verrone, e come mandò la scala, onde era a lei venuto un drudo suo, di chi egli non sa il nome, che s'avea, per non esser conosciuto, cambiati i panni e nascose le chiome. Soggiunse che con l'arme egli volea provar tutto esser ver ciò che dicea.
66
Tu puoi pensar se 'l padre addolorato riman, quando accusar sente la figlia; sì perché ode di lei quel che pensato mai non avrebbe, e n'ha gran maraviglia; sì perché sa che fia necessitato (se la difesa alcun guerrier non piglia, il qual Lurcanio possa far mentire) di condannarla e di farla morire.
67
Io non credo, signor, che ti sia nuova la legge nostra che condanna a morte ogni donna e donzella, che si pruova di sé far copia altrui ch'al suo consorte. Morta ne vien, s'in un mese non truova in sua difesa un cavallier sì forte, che contra il falso accusator sostegna che sia innocente e di morire indegna.
68
Ha fatto il re bandir, per liberarla (che pur gli par ch'a torto sia accusata), che vuol per moglie e con gran dote darla a chi torrà l'infamia che l'è data. Chi per lei comparisca non si parla guerriero ancora, anzi l'un l'altro guata; che quel Lurcanio in arme è così fiero, che par che di lui tema ogni guerriero.
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Atteso ha l'empia sorte, che Zerbino, fratel di lei, nel regno non si truove; che va già molti mesi peregrino, mostrando di sé in arme inclite pruove: che quando si trovasse più vicino quel cavallier gagliardo, o in luogo dove potesse avere a tempo la novella, non mancheria d'aiuto alla sorella.
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Il re, ch'intanto cerca di sapere per altra pruova, che per arme, ancora, se sono queste accuse o false o vere, se dritto o torto è che sua figlia mora; ha fatto prender certe cameriere che lo dovrian saper, se vero fôra: ond'io previdi, che se presa era io, troppo periglio era del duca e mio.
71
E la notte medesima mi trassi fuor de la corte, e al duca mi condussi; e gli feci veder quanto importassi al capo d'amendua, se presa io fussi. Lodommi, e disse ch'io non dubitassi: a' suoi conforti poi venir m'indussi ad una sua fortezza ch'è qui presso, in compagnia di dui che mi diede esso.
72
Hai sentito, signor, con quanti effetti de l'amor mio fei Polinesso certo; e s'era debitor per tai rispetti d'avermi cara o no, tu 'l vedi aperto. Or senti il guidardon che io ricevetti, vedi la gran mercé del mio gran merto; vedi se deve, per amare assai, donna sperar d'essere amata mai:
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che questo ingrato, perfido e crudele, de la mia fede ha preso dubbio al fine: venuto è in sospizion ch'io non rivele a lungo andar le fraudi sue volpine. Ha finto, acciò che m'allontane e cele fin che l'ira e il furor del re decline, voler mandarmi ad un suo luogo forte; e mi volea mandar dritto alla morte:
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che di secreto ha commesso alla guida, che come m'abbia in queste selve tratta, per degno premio di mia fé m'uccida. Così l'intenzion gli venía fatta, se tu non eri appresso alle mia grida. Ve' come Amor ben chi lui segue, tratta! -- Così narrò Dalinda al paladino seguendo tuttavolta il lor camino.
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A cui fu sopra ogn'aventura, grata questa, d'aver trovata la donzella che gli avea tutta l'istoria narrata de l'innocenzia di Ginevra bella. E se sperato avea, quando accusata ancor fosse a ragion, d'aiutar quella, via con maggior baldanza or viene in prova, poi che evidente la calunnia truova.
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E verso la città di Santo Andrea, dove era il re con tutta la famiglia, e la battaglia singular dovea esser de la querela de la figlia, andò Rinaldo quanto andar potea, fin che vicino giunse a poche miglia; alla città vicino giunse, dove trovò un scudier ch'avea più fresche nuove:
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ch'un cavallier istrano era venuto, ch'a difender Ginevra s'avea tolto, con non usate insegne, e sconosciuto, però che sempre ascoso andava molto; e che dopo che v'era, ancor veduto non gli avea alcuno al discoperto il volto; e che 'l proprio scudier che gli servia dicea giurando: -- Io non so dir chi sia. --
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Non cavalcaro molto, ch'alle mura si trovàr de la terra e in su la porta. Dalinda andar più inanzi avea paura; pur va, poi che Rinaldo la conforta. La porta è chiusa, et a chi n'avea cura Rinaldo domandò: -- Questo ch'importa? -- E fugli detto: perché 'l popul tutto a veder la battaglia era ridutto,
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che tra Lurcanio e un cavallier istrano si fa ne l'altro capo de la terra, ove era un prato spazioso e piano; e che già cominciata hanno la guerra. Aperto fu al signor di Montealbano, e tosto il portinar dietro gli serra. Per la vòta città Rinaldo passa; ma la donzella al primo albergo lassa:
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e dice che sicura ivi si stia fin che ritorni a-llei, che sarà tosto; e verso il campo poi ratto s'invia, dove li dui guerrier dato e risposto molto s'aveano e davan tuttavia. Stava Lurcanio di mal cor disposto contra Ginevra; e l'altro in sua difesa ben sostenea la favorita impresa.
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Sei cavallier con lor ne lo steccato erano a piedi, armati di corazza, col duca d'Albania, ch'era montato s'un possente corsier di buona razza. Come a gran contestabile, a lui dato la guardia fu del campo e de la piazza: e di veder Ginevra in gran periglio avea il cor lieto, et orgoglioso il ciglio.
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Rinaldo se ne va tra gente e gente; fassi far largo il buon destrier Baiardo: chi la tempesta del suo venir sente, a dargli via non par zoppo né tardo. Rinaldo vi compar sopra eminente, e ben rassembra il fior d'ogni gagliardo; poi si ferma all'incontro ove il re siede: ognun s'accosta per udir che chiede.
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Rinaldo disse al re: -- Magno signore, non lasciar la battaglia più seguire; perché di questi dua qualunche more, sappi ch'a torto tu 'l lasci morire. L'un crede aver ragione, et è in errore, e dice il falso, e non sa di mentire; ma quel medesmo error che 'l suo germano a morir trasse, a lui pon l'arme in mano.
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L'altro non sa se s'abbia dritto o torto; ma sol per gentilezza e per bontade in pericol si è posto d'esser morto, per non lasciar morir tanta beltade. Io la salute all'innocenza porto; porto il contrario a chi usa falsitade. Ma, per Dio, questa pugna prima parti, poi mi dà audienza a quel ch'io vo' narrarti. --
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Fu da l'autorità d'un uom sì degno, come Rinaldo gli parea al sembiante, sì mosso il re, che disse e fece segno che non andasse più la pugna inante; al quale insieme et ai baron del regno e ai cavallieri e all'altre turbe tante Rinaldo fe' l'inganno tutto espresso, ch'avea ordito a Ginevra Polinesso.
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Indi s'offerse di voler provare coll'arme, ch'era ver quel ch'avea detto. Chiamasi Polinesso; et ei compare, ma tutto conturbato ne l'aspetto: pur con audacia cominciò a negare. Disse Rinaldo: -- Or noi vedrem l'effetto. -- L'uno e l'altro era armato, il campo fatto, sì che senza indugiar vengono al fatto.
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Oh quanto ha il re, quanto ha il suo popul caro che Ginevra aprovar s'abbi innocente! Tutti han speranza che Dio mostri chiaro ch'impudica era detta ingiustamente. Crudel superbo e riputato avaro fu Polinesso, iniquo e fraudolente; sì che ad alcun miracolo non fia che l'inganno da lui tramato sia.
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Sta Polinesso con la faccia mesta, col cor tremante e con pallida guancia; e al terzo suon mette la lancia in resta. Così Rinaldo inverso lui si lancia, che disioso di finir la festa, mira a passargli il petto con la lancia: né discorde al disir seguí l'effetto; che mezza l'asta gli cacciò nel petto.
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Fisso nel tronco lo transporta in terra, lontan dal suo destrier più di sei braccia. Rinaldo smonta subito, e gli afferra l'elmo, pria che si levi, e gli lo slaccia: ma quel, che non può far più troppa guerra, gli domanda mercé con umil faccia, e gli confessa, udendo il re e la corte, la fraude sua che l'ha condutto a morte.
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Non finí il tutto, e in mezzo la parola e la voce e la vita l'abandona. Il re, che liberata la figliuola vede da morte e da fama non buona, più s'allegra, gioisce e raconsola, che, s'avendo perduta la corona, ripor se la vedesse allora allora; sì che Rinaldo unicamente onora.
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E poi ch'al trar dell'elmo conosciuto l'ebbe, perch'altre volte l'avea visto, levò le mani a Dio, che d'un aiuto come era quel, gli avea sì ben provisto. Quell'altro cavallier che, sconosciuto, soccorso avea Ginevra al caso tristo, et armato per lei s'era condutto, stato da parte era a vedere il tutto.
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Dal re pregato fu di dire il nome, o di lasciarsi almen veder scoperto, acciò da lui fosse premiato, come di sua buona intenzion chiedeva il merto. Quel, dopo lunghi preghi, da le chiome si levò l'elmo, e fe' palese e certo quel che ne l'altro canto ho da seguire, se grata vi sarà l'istoria udire.
EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Opere di Ludovico Ariosto",
a cura di Adriano Seroni, Ugo Mursia editore, Milano, 1976
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